Teatro di guerra. O teatro in tempo di guerra. Questo gioco di parole potrebbe svelare la vicenda narrata dal siriano Wael Qadour in La Confessione. L’autore sembra chiedersi (e chiedere al pubblico) se si può continuare a fare teatro sotto le bombe, in mezzo alle macerie o alla violenza. Si tratta, insomma, di domandarci quanto e come il contesto determini il testo, quanto la follia della guerra possa mutare le persone, quanto tutto quello che c’è intorno cambi il senso stesso delle parole più semplici.
Qadour immagina una situazione certo non facile. In una casa di qualche periferia siriana si intrecciano leesistenze di cinque persone: un soldato di leva, un regista teatrale, un ufficiale dell’esercito in pensione, un’attrice e un attore. Una quotidianità apparentemente impossibile, la loro, tra disperata sopravvivenza e voglia di fuga. Ma in quella disperata vitalità, dal sapore forse pasoliniano nella sua marginalità, ecco emergere la poesia del teatro. Sta a loro, a quei cinque personaggi, nonostante tutto, dire le parole di un testo come La morte e la fanciulla di Ariel Dorfman o La conchiglia del contemporaneo Mustafā Khalīfa. È l’eterno gioco della vita e del teatro, dunque: ma qui la vita preme in tutta la sua inconcepibile violenza
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